Metaverso e disabilità: l'esperienza di Bebe Vio

Bebe Vio nel metaverso: «Nel momento in cui ti manca un pezzo vuol dire che per forza ne hai migliorato un altro»

diFederico Cella

L'intervista all'avatar della campionessa paralimpica che, con la sua associazione Arts for Sport, mira a rendere super-abili i bambini disabili.


Descrizione dell'immagiCampionessa di fioretto (6 ori paralimpici, 2 mondiali e 6 europei), tedofora, portabandiera, conduttrice tv, attrice e doppiatrice, scrittrice e giornalista, modella e ambasciatrice globale di una nota marca di prodotti di bellezza. Descrivere la vita stratificata di Bebe Vio non è semplice. A lei hanno dedicato una Barbie e pure un asteroide. E questo anche se ha solo 25 anni, una carta d’identità che la definisce anche membro della Generazione Z, i cosiddetti digitarians. Motivo per cui l’abbiamo invitata nel metaverso, uno spazio digitale dove – dematerializzati – ci si confronta ad armi pari: gli avatar non tengono conto delle disabilità del mondo fisico, quello virtuale è un ambiente inclusivo dove a emergere non sono le differenze ma i talenti. E tra i molti di Bebe c’è anche quello dell’autoironia. Bisogna sapere che nell’ambiente Horizon di Meta (ex Facebook) che abbiamo usato, gli avatar hanno la caratteristica di essere tagliati a metà: non hanno le gambe. Ed ecco la stoccata: «Ci manca un pezzo, ma a me pare normale: non ce l’ho nella realtà e non ce l’ho anche qui nel metaverso. Anzi qui invece almeno ho le mani, a sto giro mi è andata bene». Una campionessa, appunto.Partiamo da una tua frase che mi ha sempre colpito: dici spesso di essere fatta per il 40% di tecnologia.

Bebe Vio nel metaverso: «Nel momento in cui ti manca un pezzo vuol dire che per forza ne hai migliorato un altro»


Campionessa di fioretto (6 ori paralimpici, 2 mondiali e 6 europei), tedofora, portabandiera, conduttrice tv, attrice e doppiatrice, scrittrice e giornalista, modella e ambasciatrice globale di una nota marca di prodotti di bellezza. Descrivere la vita stratificata di Bebe Vio non è semplice. A lei hanno dedicato una Barbie e pure un asteroide. E questo anche se ha solo 25 anni, una carta d’identità che la definisce anche membro della Generazione Z, i cosiddetti digitarians. Motivo per cui l’abbiamo invitata nel metaverso, uno spazio digitale dove – dematerializzati – ci si confronta ad armi pari: gli avatar non tengono conto delle disabilità del mondo fisico, quello virtuale è un ambiente inclusivo dove a emergere non sono le differenze ma i talenti. E tra i molti di Bebe c’è anche quello dell’autoironia. Bisogna sapere che nell’ambiente Horizon di Meta (ex Facebook) che abbiamo usato, gli avatar hanno la caratteristica di essere tagliati a metà: non hanno le gambe. Ed ecco la stoccata: «Ci manca un pezzo, ma a me pare normale: non ce l’ho nella realtà e non ce l’ho anche qui nel metaverso. Anzi qui invece almeno ho le mani, a sto giro mi è andata bene». Una campionessa, appunto. 

Bebe Vio, l'intervista nel metaverso

Partiamo da una tua frase che mi ha sempre colpito: dici spesso di essere fatta per il 40% di tecnologia.«Mi ritengo molto fortunata a poter crescere in questo periodo storico. Perché a differenza di quanto sarebbe successo fino a pochi anni fa, posso alzarmi la mattina e mettermi le gambe, posso correre, guidare, posso fare quello che voglio. Ed è tutto grazie alla tecnologia». 

Con l’aggiunta di una volontà di ferro. Ma quindi secondo te grazie alle innovazioni potremo dimenticarci la parola «disabilità»? 
«La disabilità di una persona è relativa all’ambiente circostante: se devo entrare in un negozio e ci sono cinque gradini, se ho la carrozzina non ci posso entrare, se ho le protesi invece sì. Quindi nel momento in cui tutti abbiamo la possibilità di fare qualcosa, la parola disabilità non esiste più. Se volessimo immaginarci un mondo utopico dove ci sono “rampe” per tutti, intendo aiuti anche tecnologici per ogni tipo di disabilità, ecco, il concetto stesso non esisterebbe più». 

Parliamo allora di disabilità come opportunità, un concetto non proprio semplice da comprendere. 
«La figata della disabilità è che nel momento in cui ti manca un pezzo vuol dire che per forza hai migliorato un altro pezzo ancora. La mia scherma, visto che mi manca la mano, invece che di polso come dovrebbe essere, è tutta velocità e addome, mi sono cioè dovuta adeguare al mio status. E ci sono riuscita bene». 

Rendere super-abili i ragazzi disabili è il lavoro che fate con la tua associazione Arts for Sport. 
«Siamo 43 ragazzi, dai 3 anni in su, con i quali stiamo crescendo assieme. Ognuno fa uno sport differente e noi creiamo protesi per permettere a chiunque di praticarlo. La mia protesi per la scherma l’ha inventata papà. Per una ragazza abbiamo creato una protesi per permetterle di fare canottaggio, a un’altra per andare a cavallo, un’altra ancora per lo snowboard». 

Ma quindi è possibile non avere limiti per un corpo modificato dalla tecnologia? 
«È forse paradossale, ma un disabile con una mano o un piede amputato non ha più quel limite fisico. Se dunque qualcuno si inventasse una protesi con una spada laser oppure con l’aggeggio di Spiderman, ecco potrei sparare ragnatele in giro. Il tuo corpo può diventare tutto quello che vuoi grazie alla tecnologia». 

Parliamo allora di cultura della disabilità, quella che insegnate ai ragazzi della Bebe Vio Academy che lo scorso giugno ha chiuso il suo primo anno. 
«È stato entusiasmante, cinque mesi passati con bambini e ragazzi: 15 “normo” e 15 disabili, lo scopo era proprio quello di insegnare loro l’integrazione. Ma ho scoperto che non serve, basta buttare una palla in mezzo e nessuno si rende più conto di chi usa la carrozzina e chi non la usa, lo scopo di tutti diventa solo quello di giocare». 

Ma perché quando cresciamo queste differenze non solo le vediamo ma ci costruiamo sopra la nostra società? 
«L’approccio alla disabilità dipende da come sei stato cresciuto. Io stessa, prima degli 11 anni (quando ha subito l’amputazione di braccia e gambe, ndr), non avevo mai visto una persona con una protesi, le carrozzine pensavo fossero solo per i vecchietti e non sapevo dell’esistenza dello sport paralimpico. È come se prima della mia disabilità il mondo della disabilità non esistesse. Fino a qualche tempo fa le persone con un’amputazione erano viste come se fossero di una classe sociale differente. Accade purtroppo ancora adesso, quando sento genitori che – di fronte alla domanda del figlio: ma che cos’ha? – rispondono la cosa peggiore di tutte, cioè “Non guardare”. Ma ai bambini invece non gliene frega niente se hai o no una gamba, a loro importa il nocciolo della questione, cioè come riuscire a relazionarsi. E se qualcosa sta cambiando è proprio grazie ai giovani, perché se una certa cultura la insegni fin da piccoli, cresceranno con una mentalità inclusiva in modo spontaneo». 

E in questo gioca un ruolo chiave quella che chiami «la figata dello spogliatoio». 
«Adoro gli spogliatoi perché è il momento in cui letteralmente ti metti a nudo. Fai vedere come sei, non ti fai nessun problema. Ti stacchi la gamba, gliela metti in mano e gli dici: ecco questa è una protesi. Funziona così e cosà. La prima volta ti guardano strano, la seconda capiscono che cos’è la disabilità e dalla terza sei uguale agli altri. Entrano nello spogliatoio, vedono due gambe lasciate lì e pensano: oh guarda, è arrivata Bebe». 

Sono passati sei anni dal famoso selfie con Obama dove non hai accettato un «impossibile» come risposta alla tua richiesta di fotografarti con il presidente degli Stati Uniti.
«Da allora è una parola che ho imparato molto bene perché me l’hanno detta spesso. E l’ho imparata proprio per capire quante volte è veramente impossibile fare qualcosa e quando invece non era realmente così. Ed è incredibile rendersi conto di quante volte l’impossibile diventa possibile, anche soltanto cambiando prospettiva».


Commenti

  1. Intervista ispiratrice. Bebe Vio dimostra che la disabilità non è un limite, ma una sfida da affrontare con determinazione e creatività. Il metaverso offre una piattaforma unica dove le disabilità fisiche non sono rilevanti, permettendo ai talenti di emergere in un ambiente inclusivo. La sua visione di un mondo in cui la tecnologia annulla le barriere e rende tutti "super-abili" è veramente rivoluzionaria.

    RispondiElimina
  2. Tema molto complesso...se nel metaverso, le persone con disabilità possono ritrovare una sorta di normalità, accessibilità e indipendenza, nella realtà hanno sempre bisogno di assistenza per le necessità quotidiane; tuttavia resta il rischio che il forte utilizzo di questo tipo di tecnologia porti all'alienazione dell'utilizzatore.

    RispondiElimina
  3. Se pensiamo che grazie alle tecnologie di computer vision è addirittura possibile aiutare le persone non vedenti a percepire meglio le persone intorno a loro oppure traduzioni e sottotitoli i tempo reale per i non udenti. in caso disabilità le tic possono migliorare la vita promuovendo l' uguaglianza di opportunità.

    RispondiElimina
  4. Il metaverso è il mondo fantastico in cui non esistono più barriere, consente alle persone con disabilità a partecipare e ad accedere ad ogni tipo di attività.

    RispondiElimina

Posta un commento

Post più popolari